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Morire sul lavoro, nella repubblica fondata sul lavoro

Molti anni fa, avevo intorno ai 12-13 anni, mi accadde un piccolo incidente (uno dei tanti).

Ero come tutte le estati a casa degli zii nel Sud, una casa che aveva anche dei macchinari, di varia natura, legati al lavoro dello zio, in fabbrica. Uno di questi era un doppio rullo che veniva usato per strizzare lenzuola, tendaggi, e simili. Io mi ero offerto, come facevo sempre, di aiutare. Ed ero rimasto a strizzare lenzuoli, mentre mia cugina, più grande di me, era in un’altra stanza. Ci parlavamo a distanza. E mi distrassi, un solo istante, perché il mio sguardo andava verso la voce della cugina, che non vedevo ma udivo. Quell’istante fu fatale: non so come. il lenzuolo si impigliò nella mano, che fu risucchiata verso il rullo. Cercai prima di resistere, tirando verso di me, ma la mia forza non era pari a quella del macchinario. Quando le dita giunsero a contatto del rullo urlai, e mia cugina accorse, ma nessuno dei due ebbe subito l’idea giusta: spegnere l’interruttore. Tiravamo entrambi, urlando entrambi. Una scena insieme drammatica e comica, se qualcuno ci avesse guardato dall’esterno: ma ricordo la paura, e il dolore, perché una mano, una sola, la destra finì nell’ingranaggio. Prima che fosse stritolata finalmente avemmo un barlume di lucidità e staccammo la corrente. Poi non fu agevole aprire i rulli, e ricordo ancora quella paura, che la mano fosse stata irrimediabilmente deformata. Non fu così, per mia fortuna, anche se ancora quella mano a guardarla con attenzione mostra i segni dell’incidente.

Mi è sovvenuto quell’episodio, leggendo dell’incidente che ha ucciso, in una fabbrica tessile, Luana D’Orazio, giovane operaia con i sogni dei giovani, con i problemi di chi è costretto a un lavoro per quanto faticoso o pericoloso per “dare una mano in famiglia”. Luana aveva 22 anni, e un bimbo, e viveva con la mamma, la quale, prontamente, biecamente intervistata dai soliti avvoltoi parla, teneramente, di sua figlia come di “una ragazza-madre”. Luana aveva un fidanzato, che la piange, aveva i sogni sparsi nei cassetti dei suoi vent’anni: altre più fortunate di lei, con la sua bellezza “finiscono in televisione” a fare le veline, magari sposano un divo del cinema o un campione sportivo. Lei faceva l’operaia, anche se aveva persino avuto un ruolo di comparsa in un filmetto. Faceva l’operaia e amava il suo lavoro, dicono. Amava, credo, portare a casa un po’ di denaro, anche per allevare quel bimbo di cinque anni, che è ancora ignaro del destino spezzato di quella mamma così “piccola”. Chi troverà la forza per spiegargli che cosa è accaduto? Con quali parole?

Il mio incidente fu una cosa ridicola, al confronto di questo, ma la scena mi è rimasta impressa dentro, indelebilmente. La meccanica grosso modo deve essere stata se non proprio la stessa assai simile. Perciò ho provato a mettermi nella testa, negli occhi, nel cuore di Luana, ma sono stato capace soltanto di versare lagrime, altre lagrime, dopo quelle che già ieri sera avevo versato davanti alle news in tv.  

Non riesco a concepire il terrore che deve aver invaso gli occhi, il volto, il cuore di questa dolcissima ragazza; non riesco a sentire le sue grida, che deve aver lanciato verso i compagni di lavoro, grida coperte dal frastuono delle macchine; non voglio immaginare il suo corpo flessuoso maciullato dall’ingranaggio; non riesco a concepire la bellezza e la giovinezza uccise insieme in un istante, lunedì 3 maggio, in un borgo in provincia di Prato.

Non dirò nulla, ora, sulla spaventosa realtà degli incidenti sul lavoro, nulla del Primo Maggio appena archiviato con il suo grottesco strascico di polemiche politico-giornalistiche, non dirò come quella giornata – certo di festa, ma anche di lotta e di riconoscimento della centralità del lavoro – sia stata oggi inglobata, e quasi fagocitata in un gigantesco apparato di intrattenimento consumistico con contorno di vuote parole retoriche.

“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, in tanti ci hanno ricordato lo stentoreo primo articolo della nostra bella Costituzione. Ma i Padri Costituenti avevano in mente il lavoro che riscatta, il lavoro che nobilita e che mobilita, il lavoro che produce ricchezza, e che dà la forza e il senso a una intera comunità; ma forse almeno alcuni tra loro avevano il pensiero non espresso del lavoro sfruttato, del lavoro malpagato, del lavoro che succhia energie e cancella troppo spesso la gioia di vivere. Nell’enfasi dello “statu nascenti”, nell’ebbrezza di creare la norma fondamentale della nuova Repubblica, antifascista e democratica, avevano, temo, cancellato la possibilità stessa del lavoro che uccide.

E invece eccolo qui, eccolo tra noi, ogni giorno, ogni anno, da quel 1° gennaio 1948 quando la Carta costituzionale andrò in vigore; con il suo triste corteo di padri di famiglia che cadono da impalcature, di giovanotti nel fior degli anni inghiottiti da fosse venefiche o fulminati da fili elettrici… E di splendide giovani donne maciullate da un orditoio.

Addio, Luana.  

Eclettico e fuori degli schemi. Addio a GIOrgio Galli

Anche Giorgio Galli ci ha lasciato, proprio alla fine di questo anno terribile. È morto, per infarto, oggi, 27 dicembre 2020. Aveva 92 anni: la sua è stata una esistenza lunga e laboriosa. Negli ultimi anni era piuttosto dimenticato, ma in passato aveva goduto di una notevole fama tra politologi, storici del pensiero e dei movimenti politici, opinionisti. In accademia non godè di gran fortuna, sebbene sia stato a lungo professore all’Università statale di Milano (non ottenendo mai la cattedra, se non ricordo male): in particolare venne sempre considerato un “estraneo” alla disciplina che insegnava, e che fu la mia, la Storia delle dottrine politiche, a cui dedicò anche uno svelto manuale (per Il Saggiatore, nel 1985).

In effetti Galli non aveva i “quarti di nobiltà” che questa disciplina, piuttosto parruccona e retriva rispetto all’innovazione e idiosincratica verso l’originalità, richiede; né lui fece alcunché per ingraziarsi i boss, un passaggio indispensabile se non si voleva essere emarginati o quanto meno variamente penalizzati (parlo per personale esperienza). D’altro canto, egli, scrittore prolifico (un’ottantina di libri!), eclettico fino all’estremo, viaggiò sempre su terre di confine, in territori che era difficile identificare in modo certo e definitivo: il meglio di sé lo diede negli anni Sessanta, con la formula del “bipartitismo imperfetto” (il volume così intitolato fu pubblicato dalle edizioni del Mulino nel 1966) per identificare la situazione politica italiana, bloccata fra DC e PCI: imperfetto perché, da un canto, in fondo vigeva quello che il giornalista Alberto Ronchey aveva chiamato “Il fattore K”, per indicare l’ipoteca (negativa a suo parere) del comunismo sul PCI, che impediva una sua ascesa al governo del Paese, mentre d’altro canto la DC era per varie ragioni, a cominciare dal sostegno del Vaticano e delle gerarchie cattoliche, inamovibile. In sostanza dei due componenti del campo bipartitico,  uno (il PCI) era di fatto impossibilitato all’ascesa al potere per ragioni ideologiche (il comunismo, e la “fedeltà” all’URSS), e l’altro (la DC) era embricato nella società italiana, tra istituzioni e forze sociali ed economiche, a tal punto che neppure le cannonate avrebbero potuto scollarlo dal governo. Eppure quei due competitors erano in combutta nel sottogoverno, nella gestione di clientele, di apparati sindacali, e quant’altro.

Le altre opere rilevanti di Galli non furono mai tecnicamente di storia del pensiero politico, ma sempre aperte e talvolta incerte, tra scienza politica e storia dei partiti, tra sociologia e filosofia politica, opere spesso discutibili sul piano metodo e anche sulle tesi interpretative, ma sempre stimolanti, capaci cioè (anche per esser confutate, e persino di essere radicalmente respinte), di dare inedite suggestioni, aprire scenari nuovi, suscitare la volontà di sapere di più e capire meglio.

Non fu mai un “intellettuale di sinistra”, ma non fu mai tra gli avversari della sinistra; scelse una sorta di via appartata, anche quando scriveva sulla stampa (tenne una rubrica per almeno un trentennio su “Panorama”, prima della svolta berlusconiana del settimanale), una via fondata su una totale indipendenza di giudizio, che gli consentiva di dire sempre la sua, in modo libero, anche se non di rado con giudizi non condivisibili, prima che sul piano politico, su quello scientifico. Si occupò, tra i primi, anche della “Storia del Partito Comunista Italiano”, con un volume così intitolato, firmato insieme a Fulvio Bellini, uscito presso il raffinato editore Schwarz di Milano nel 1953, l’anno della morte di Stalin, un personaggio storico verso il quale invitava a guardare senza semplificazioni demonizzanti e banalizzazioni incongrue; vanno ricordati i due libri “Stalin e la sinistra”, edito da Baldini Castoldi & Dalai (2009) e “In difesa del comunismo nella storia del XX secolo” (Kaos Edizioni, 1998).

C’era nel suo approccio alla storia del comunismo una attitudine laica, che respingeva ogni rifiuto aprioristico, ma altresì l’adesione ideologica, che peraltro era comunque, per quanto concerne il comunismo italiano, caratterizzato da una forte simpatia per Amadeo Bordiga e il bordighismo, corrente sconfitta in seno a un movimento a sua volta sconfitto. E fu tra i primi a proporre una interpretazione “dietrologica” del terrorismo brigatista con la Storia del partito armato (Rizzoli, 1986), in cui avanzava l’ipotesi, che oggi possiamo ritenere nient’affatto peregrina, che le azioni di brigatisti e sodali fossero state tollerate se non addirittura favorite da centri di potere, istituzionali ed economici, che erano ostili ad ogni vero cambiamento sociale in Italia.

Negli ultimi decenni Galli si era inerpicato sui sentieri malagevoli dell’esoterismo, per interpretare fenomeni, ideologie e movimenti come il nazismo, in particolare con una suggestiva e, ribadisco, non persuasiva analisi su “Hitler e il nazismo magico” (Rizzoli, 1989), ripresa e sviluppata nel succesivo, recentissimo “Hitler e l’esoterismo” (Oaks 2020).  Del testo hitleriano, il famigerato “Mein Kampf “ aveva osato pubblicare una edizione con sua ricca Introduzione (ancora con le Edizioni Kaos, 2002).

Più condivisibili a mio avviso, e di grande attualità, le analisi sugli svolgimenti del turbo-capitalismo e dell’inabissamento della democrazia, sullo strapotere dei grandi network della finanza internazionale con due libri recenti: “Il golpe invisibile” (Kaos, 2015) e “Il potere che sta conquistando il mondo” (con Mario Caligiuri e uscito da Rubbettino). Libri di cui si parlò poco, purtroppo, mentre al di là di una certa tendenza al complottismo, fornivano interessanti chiavi di lettura sulla spaventosa deriva del capitalismo internazionale. Ora Giorgio Galli non potrà più aiutarci a decifrare la china in cui il nostro mondo sta precipitando. Rimane, se non altro, di lui, la libertà di ricerca e l’indipendenza di giudizio: due valori da non sottovalutare, in un’epoca di triste conformismo

Giorgio Galli (dal sito del “Corriere della Sera”)

Goodbye, Leonardo!

Un altro morto. Se n’è andato ieri, 14 dicembre 2020, Leonardo Mosso, un uomo meraviglioso, un autentico esemplare di architetto filosofo, di architetto artista, di architetto creatore in sintesi. L’architettura, ci hanno insegnato i classici, da Aristotile a Vitruvio, da Leon Battista Alberti fino a Le Corbusier, richiede competenze che vanno dalla filosofia all’ingegneria, dalla storia alla letteratura. Richiede uno sguardo ampio, anzi amplissimo, un respiro intellettuale che tuttavia non è da tutti: troppo sovente, oggi specialmente, gli architetti sono dei tecnici, magari forniti di un know how specifico, ma senza quel respiro, senza la passione creativa, che pure sarebbe indispensabile se si vuole lasciare un’orma di sè. Leonardo Mosso si ispirava in particolare ad Alvar Aalto, di cui seguì le orme, adibendo, con la sua dolcissima compagna Laura Castagno, architetta e grande organizzatrice, la loro dimora in collina a Centro dedicato appunto al geniale architetto finlandese.

Leonardo era figlio d’arte: suo padre Nicola (che ebbi il piacere di intervistare molti anni fa, per le mie ricerche sulla cultura a Torino), fu un architetto che per un periodo aderì a futurismo, e ha dato alla città di Torino alcune opere importanti. Leonardo aveva in più la poesia, rispetto al padre: è stato davvero un creatore, con disegni (molti) e opere, poche rispetto a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, ma non era facile che i suoi progetti, veri esempi di poesia trasformata in architettura, venissero approvati dagli enti pubblici. non ha avuto il successo che meritava. Un paio d’anni or sono la città di Parigi, gli ha dedicato una sala permanente al Centre Pompidou. Ancora una volta dovremmo concludere: “nemo propheta in patria?”.

Curiosità degna di nota: Alvar Aalto aveva una barca con la quale compiva gite sui meravigliosi, innumerevoli laghi del suo Paese. La barca si chiamava “Nemo propheta in patria”.

Ma di Leonardo Mosso ricorderò soprattutto la dolcezza, l’apertura dialogica, l’empatia. Lo saluterò come fanno i finlandesi con chi muore: “Hyvästi Leonardo!”, ossia Goodbye, Leonardo!

“(L’immagine è tratta dalla cerimonia di designazione a “socio onorario” della SIAT, Società Ingegneri ed Architetti di Torino)

UNa introduzione ai “quaderni del carcere” di Gramsci


La percezione della sconfitta, sua personale, del Partito comunista e dell’intero movimento operaio occidentale, induce Gramsci – ormai in carcere – a un doloroso ripensamento della propria esperienza politica che, però, non si traduce mai in una sconfessione delle proprie idealità. Muovendosi tra filosofia, letteratura, scienza politica, economia, diritto, antropologia, sociologia, teatro, scienze esatte, il dirigente del Pci condensa nei Quaderni le sue riflessioni, con un preciso intento politico: per proseguire sul cammino della rivoluzione, occorre comprendere le ragioni della sconfitta.

di Angelo d’Orsi

All’interno del decennio che va dall’arresto di Antonio Gramsci (8 novembre 1926) fino alla sua morte (27 aprile 1937), si contano sei anni (1929-1935) di potente creatività teoretica, a partire dal momento in cui riceve il permesso di scrivere, per qualche ora al giorno (febbraio 1929): il risultato è contenuto in 33 quaderni, che verranno pubblicati per la prima volta fra il 1948 e il 1951, in una edizione tematica, in sei volumi, pensata da Palmiro Togliatti e curata da Felice Platone, per i tipi di Einaudi. Un’edizione discutibile sul piano filologico, ma intelligente su quello editoriale e politico: rendeva più agevole la lettura di un testo non finito, e consentiva un miglior utilizzo del pensiero gramsciano come basamento del «partito nuovo» togliattiano, nell’avvio di una prudente presa di distanza dall’Urss. Bisognerà attendere il 1975 per avere l’edizione critica, curata da Valentino Gerratana: e sarà quasi un nuovo Gramsci, quello svincolato dall’interpretazione togliattiana. Oggi, nell’ambito dell’edizione nazionale di tutti gli scritti, è in corso un’edizione filologicamente ancora più accurata, diretta da Gianni Francioni, che consentirà il massimo di fruibilità dei testi gramsciani.
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Dal momento dell’arresto all’inizio dei Quaderni, Gramsci ha solo la possibilità di scrivere lettere, che tuttavia non vanno intese come un semplice documento affettivo: esse fanno corpo con i Quaderni, fornendo un aiuto non soltanto per datare per quanto possibile le note raccolte nei Quaderni stessi, ma anche per comprenderle.

Tuttavia, la filologia e la cronologia non devono indurre alla frammentazione dei Quaderni del carcere, i quali, pur nella loro provvisorietà e disarticolazione, costituiscono, in certo senso, «un’opera», e non solo grazie alla tradizione che così li ha letti: a ben guardare, si coglie la volontà dell’autore di superare la frammentarietà pur rimanendo il suo un pensiero dialogico, dunque «frammentistico». Non è casuale il suo ritornare, dopo un certo tempo dall’inizio della scrittura, sui testi, rielaborarli, e persino abbozzare dei saggi (i «quaderni speciali»). Non va poi trascurato il nesso tra la condizione fisica e psicologica del recluso e il suo lavoro intellettuale; ossia, tra il degrado del fisico e l’elaborazione teorica; lo stile stesso della scrittura ne risente. La percezione della sconfitta, sua personale, del Partito comunista e dell’intero movimento operaio occidentale, lo induce a un doloroso ripensamento che, però, non si traduce mai in una sconfessione delle proprie idealità. Il lavoro di Gramsci, nella lunga detenzione, risulta anche essere un’acuta meditazione sulla modernità, quella del secolo XX e più in generale del grande processo di costituzione del «moderno».

La stesura delle prime note dei Quaderni, tra il 1929 e il 1931, oltre agli esercizi di traduzione (con scelte tutt’altro che casuali), coincide con la «svolta» in seno al Comintern, che rappresenta un momento di acuta crisi all’interno del movimento comunista, che per il dirigente in prigione è occasione per ripensare la storia e i problemi di quella comunità di cui continuava a sentirsi (e di cui era oggettivamente) parte. Gramsci analizza e scrive con il distacco di chi è impossibilitato a essere attore politico, ma continua a pensare politicamente, pur servendosi di una metodologia storica e ricorrendo alle più varie discipline: filosofia, letteratura, scienza politica, economia, diritto, antropologia, sociologia, teatro, scienze esatte…

I Quaderni diventano, via via, un autentico «Zibaldone di pensieri», che oggi ci appare un serbatoio di concetti per interpretare il moderno. Si tratta nell’insieme di un’opera fortemente intrisa di storicità che trascende la storia, quella del suo tempo, quella del movimento comunista, quella del proletariato. Di qui l’importanza di datare le pagine dei Quaderni, dandone cioè una lettura diacronica, senza cedere all’esasperazione filologica, tenendo conto che esse hanno una sorta di «struttura reticolare» in cui l’autore procede con una scrittura che è stata definita «a spirale». Perciò è importante tentare di ricostruire l’insieme dei temi messi a fuoco da Gramsci, il quale procede rivedendo i testi di prima stesura (i «quaderni miscellanei»), aggiungendo, precisando, introducendo modifiche nella propria elaborazione (i «quaderni di seconda stesura»).

Si tenga poi conto, oltre che della frammentarietà della scrittura, del suo carattere spesso allusivo, simbolico, circospetto, per timore della censura, e per l’autocensura di Gramsci stesso. Rimane comunque un dato: a dispetto della dichiarazione di scrivere für ewig, concetto di derivazione goethiana, che allude a un non immediato utilizzo pratico delle sue riflessioni, l’intento fondamentale dei Quaderni è politico: per proseguire sul cammino della rivoluzione, occorre comprendere le ragioni della sconfitta. Si tratta, quindi, di ricalibrare la rivoluzione, definirne un modello nuovo, diverso da quello canonico dell’Ottobre russo: una rivoluzione come processo, non come atto, come costruzione egemonica, non come assalto frontale. Di qui, la complessa elaborazione sulla figura e il ruolo dell’intellettuale, di cui egli allarga i confini, sottolineando che non si tratta di una categoria, ma che ogni classe ha e deve avere i propri intellettuali. Il proletariato, in particolare, secondo Gramsci ha questa necessità nella fase che si trovava ad attraversare in quel momento, quella successiva alla propria disfatta politica.

Naturalmente, vi sono pagine più immediatamente politiche, anche in forma cifrata; altre lo sono in modo mediato, in una trattazione che privilegia un approccio storico, ma attento agli ambiti delle altre scienze umane e sociali. La ricerca delle cause della sconfitta implica la riflessione sui vincitori, le forze che hanno battuto il movimento proletario, ossia il fascismo e l’americanismo: due volti, in sostanza, del capitalismo. Nelle pagine del quaderno speciale Americanismo e fordismo, è notevolissima la capacità di penetrare quel mondo, con analisi che sembrano anticipare quelle degli esponenti della Scuola di Francoforte, ma con un’attenzione al fattore economico estraneo alle analisi di Adorno e sodali e con tratto decisamente più politico, non di mera denuncia morale nei confronti di un sistema dei cui benefici si è partecipi.

In relazione alla crisi del 1929, la lettura gramsciana sfida le stolide certezze del Comintern, e ribalta l’interpretazione che pretenderebbe come imminente il crollo del capitalismo e l’avvento del comunismo. Anche se fosse vicina la società di uomini e donne liberi ed eguali, Gramsci giudica comunque necessaria una fase di transizione, col recupero della democrazia: ecco il senso della proposta della Costituente, un raggruppamento di forze antifasciste dal comune orientamento. Una proposta che suscita forte contrarietà in seno al Pcd’I, creandogli difficoltà nei suoi rapporti con i compagni in prigione come lui. È quella del resto l’epoca in cui Gramsci compie lo sforzo di delineare un profilo diverso della rivoluzione, usando come paragone oppositivo le categorie di «Occidente» e «Oriente». In Occidente, ossia nelle società a capitalismo avanzato, la rivoluzione non può più essere concepita secondo il modello bolscevico, quello concretizzatosi il 7 novembre 1917 a Pietrogrado con l’assalto al Palazzo d’Inverno; la rivoluzione non solo deve essere predisposta con un lento lavorio ideologico e culturale (come Gramsci teorizzava già negli anni giovanili), ma deve essere costruita come un processo volto a sostituire all’egemonia e al dominio borghese quelli proletari, lavorando essenzialmente nei campi della cultura, grazie agli intellettuali «organici» alla classe lavoratrice, la classe degli sfruttati e degli oppressi. Una classe che, dunque, può diventare «dominante» solo se prima è in grado di essere «dirigente», realizzando una contro-egemonia rispetto all’egemonia del capitale.

Di qui l’importanza di avere propri intellettuali, il cui compito precipuo è aiutare la classe a diventare egemone. Una classe che, nondimeno, nel corso del tempo, Gramsci comincia a vedere nelle sue trasformazioni, al punto da iniziare a parlare di «gruppi subalterni» invece che di «proletari» o di «classe operaia»: una delle grandi novità del lavoro intellettuale in carcere, novità che, accanto al concetto di egemonia, sembra essere tra le principali spiegazioni dell’odierna fortuna del pensiero gramsciano, più adeguato di quello di altre pur grandi figure che hanno riflettuto sui caratteri della modernità novecentesca a comprendere i caratteri sociali e culturali del nostro tempo, ai fini di una sua radicale trasformazione.

***

Nel serbatoio gramsciano, tra il 1929 e il 1935, con un massiccio ricorso alla ricostruzione storica e una puntuale, benché non sempre coerente, trattazione teorica, ivi comprese oscillazioni lessicali (ma si deve tener conto del carattere di cantiere aperto, di laboratorio, che hanno i Quaderni), vengono a definirsi una serie di concetti fondamentali, da egemonia a gruppi subalterni, da rivoluzione passiva a blocco storico, da società regolata a Stato allargato, da nazionale-popolare a cesarismo (progressivo e regressivo) e così via: si tratta di idee forza che spesso Gramsci riprende da altri autori, anche esterni alla tradizione marxista, ispirato e influenzato, sia pure spesso in forma di contrasto, non solo da Marx, Labriola o Lenin, ma anche da Croce, Sorel, dai pragmatisti e dagli elitisti… Forse il suo riferimento principale è Machiavelli, anche per una sorta di processo di autoimmedesimazione nella figura del segretario fiorentino, come lui costretto ad abbandonare la politica attiva, come lui pronto a recuperarla ricorrendo al bagaglio dell’esperienza diretta e alla conoscenza della storia. Come Machiavelli, nei Quaderni Gramsci riflette sulla politica e sul politico, sulla formazione delle leadership, sui problemi dello Stato moderno e, invece che sul Principe come figura individuale, sul Principe come intellettuale collettivo, ossia il partito politico (comunista), e se lo sguardo machiavelliano indugia su Firenze e sull’Italia del XVI secolo, a Gramsci tocca riflettere sul «suo» Mezzogiorno sfruttato e vilipeso, sul Risorgimento, come rivoluzione mancata, e sulla questione meridionale, in relazione a quella nazionale, superata su di un piano sovranazionale. Riemerge ellitticamente l’idea giovanile di un comunismo come umanesimo integrale, un comunismo che non avrebbe obbligato gli esseri umani a essere liberi, capace di costruire una società egualitaria, in cui sarebbero stati banditi i processi politici, dove la cultura sarebbe stata una risorsa da valorizzare, e dove a tutti sarebbe stato garantito il diritto di godere della bellezza.

Nell’insieme, i Quaderni ci appaiono oggi una miniera a cui le scienze umane e sociali possono proficuamente attingere, anche solo per uno spunto da riprendere, sviluppare e adattare alla temperie di diversa epoca storica. Una nuova teoria generale del marxismo si affaccia, con importanti innesti nel corpo stesso del pensiero di Marx, mentre si verifica un allontanamento via via più netto dalle dogmatiche del marxismo-leninismo e anche un uso di Marx come contraltare rispetto allo stesso Lenin.

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Il biennio trascorso a Formia (1933-1935), nella prima delle due cliniche che accolgono Gramsci, rappresenta l’ultimo periodo di creatività: ha ottenuto la semidetenzione, ma è nondimeno sottoposto a un controllo poliziesco persino più intenso rispetto al carcere. Nel 1935 Gramsci finisce per cedere. La tentazione di «sparire come un sasso nell’oceano» (parole indirizzate alla moglie Giulia nel 1931), di tanto in tanto affiorante, sembra prevalere, e ciò spiega la fine della stesura dei Quaderni, e la rarefazione delle Lettere; e spiega infine il tono via via più amaro, con il progressivo emergere di un sentimento tenuto fino ad allora a bada, l’autocommiserazione: «Questo inferno in cui muoio lentamente», scrive nel luglio ’33. Gli anni seguenti sono un calvario, in una drammatica dialettica tra la speranza e la disperazione, la voglia di continuare a lottare, ossia a scrivere, e il desiderio di abbandono. Le ultime note sono del maggio 1935, poi soltanto rade lettere ai familiari. Il passaggio a un’altra clinica, la Quisisana di Roma, non sortisce gli effetti sperati: il suo fisico è troppo logorato, troppo provato lo spirito. Mentre aumentano le paure, le angosce, il senso di fallimento, le manie di persecuzione.

È la morte, giunta il 27 aprile del ’37, a liberarlo. Ebbe ragione Piero Sraffa a dire, appena avuta la notizia, che quella era «una disgrazia senza l’eguale»; non solo per amici e compagni, e per la vicenda del comunismo, ma per la storia della cultura internazionale. Ci restano i Quaderni, uno dei più preziosi tesori del pensiero umano.
(28 aprile 2020)

Acerca de Gramsci. Entrevista exclusiva al historiador italiano Angelo d’Orsi Acerca de Gramsci.

Por Cris González

Angelo d’Orsi atendió al llamado de Correo del Alba inmediatamente y nos encontramos con un historiador dueño de una prolífica obra sobre metodología, historia, ciencias políticas, así como uno de los expertos en la vida y pensamiento de Antonio Gramsci. Hace tres años, en ocasión del 83 aniversario de la muerte del sardo, publicó Una nuova biografia sobre el intelectual comunista. Algunos detalles de la trayectoria del profesor de la Universidad de Torino, como escritor vinculado a la tarea de comunicar, es que forma parte de varios comités de revistas científicas y es miembro fundador de algunas series editoriales y de diversos medios como: Nuova Sinistra. Apuntes de Turín (1971-1974), Nubes (1991, de las cuales luego se mudó), Cuadernos de historia de la Universidad de Turín (1996-2001), Historia Magistra. Revista de historia crítica (2009-en progreso), Gramsciana. Revista internacional de estudios sobre Antonio Gramsci (2015-en progreso). También fundó Festival Storia (2003, 1ª edición 2005). Ha colaborado con varios periódicos (Il Sole 24 ORE, Corriere della Sera, La Stampa, Workers ‘Daily, Il Fatto Quotidiano). Sin más y para homenajear al genio sardo, les dejamos este diálogo con D’Orsi. Lo primero es expresarle el agradecimiento y solidaridad desde Correo del Alba. Manifestarle nuestros mejores deseos bienestar para usted, su familia y su pueblo, en momentos tan críticos para Italia.  ¿Cómo está y cómo lleva la cuarentena? La situación, como sabes, en Italia es muy mala. Y después de dos meses de lock down –cierre total–, el Gobierno no tiene seguridad en cuanto a las opciones a tomar, no sabe si prolongar el cierre. Pero los ciudadanos estamos al borde de la crisis de nervios, sin hablar  del gravísimo daño económico que está destruyendo a muchos sectores. Italia corre el riesgo de perder un cuarto o incluso la mitad de su PIB antes del 2021. Si nada cambia, el país, su economía, su tejido social, no podrá volver a la normalidad, por muy feo y cruel que esto sea. Pero, la opción de todos los países en el mundo ha sido la cuarentena. El cierre está socavando las relaciones humanas y causando graves daños psicológicos y económicos a los individuos y las familias. Todos estamos muy afectados y esperábamos salir de la cuarentena a principios de mayo, pero en cambio nos acaban de decir que el cierre se ha extendido para todo el mes de mayo. ¡Esto es terrible! ¿La inédita situación del Covid-19 podría desembocar en nuevas formas de control por parte de los gobiernos de derecha para frenar estallidos sociales? Sin duda, el riesgo de una deriva autoritaria existe y es visible. El poder aquí está asumiendo un proceso de centralización en manos del Primer Ministro, que actúa como “jefe de Gobierno”, una figura política inexistente en el sistema institucional italiano. “Gramsci, que vive solo una generación después de la de Lenin, es un agudo intérprete de la modernidad, es decir, de los cambios que el siglo XX trajo en el plano social, político e intelectual” La Constitución considera que el Gobierno está formado por un colectivo de ministros secretarios de Estado, todos del mismo nivel, y un primer ministro, quien solo tiene una tarea de coordinación y dirección. En cambio, hoy, gracias a la emergencia del Covid-19, el Primer Ministro (que, por cierto, es un ciudadano particular elegido no se sabe por quién o porqué) actúa como líder absoluto, lo que excluye la consulta al resto de los ministros, bloquea el debate parlamentario, impide una discusión pública, mientras que asiste a comisiones, y a un número indeterminado de grupos de trabajo nombrados por él, sobre los cuales su elección y nombramiento no se ha discutido, ni en el Parlamento ni fuera de este. Las normas que se han ido aprobando para evitar la propagación del contagio son confusas y “amplias”, es decir, dejan un extenso margen de discreción en su aplicación  a las fuerzas policiales, que se comportan de manera verdaderamente represiva y a menudo absurdamente dictatorial en contra de los ciudadanos. Sobre estos últimos se descarga la responsabilidad de una situación que, por otra parte, es enteramente responsabilidad de la clase política, de la “centro-derecha”, de la “centro-izquierda” y del partido con mayoría en el parlamento, el Movimiento 5 Stelle. El proceso de desmantelamiento del Estado social, el welfare estado, ha sido llevado a cabo, aunque con cierta diversidad de énfasis, por toda la clase política, y ahora es la ciudadanía la que paga las consecuencias. Además, las medidas adoptadas –seguramente destinadas a impedir la propagación del virus– asumen aspectos inquietantes de represión de la libertad de movimiento, de expresión del pensamiento e incluso de manifestación de afectos y sentimientos. El riesgo es que estas medidas, consideradas “provisionales”, se conviertan en definitivas, en medio de la indiferencia general de la ciudadanía. Y la democracia quede de hecho a un lado y sea reemplazada por una forma de “cesarismo regresivo”, como diría Gramsci. ¿Cuál  considera que es el papel de la sociedad civil en la teoría del Estado ampliado en Gramsci? Gramsci innova profundamente la tradición marxista, en muchos ámbitos, y añade nuevos elementos al propio pensamiento de Marx. Por ejemplo, sobre el Estado, que para Gramsci ya no es el instrumento que utiliza una clase o un grupo de clases sociales para dominar a las demás clases, según la teorización clásica de Lenin, que en El Estado y Revolución (1917) y en otros escritos retoma y desarrolla, de manera original pero limitada, las ideas que en Marx, y especialmente en Engels, se encuentran sobre el tema del Estado. Gramsci, que vive solo una generación después de la de Lenin, es un agudo intérprete de la modernidad, es decir, de los cambios que el siglo XX trajo en el plano social, político e intelectual. Especialmente a partir de la derrota que el movimiento proletario sufrió en Occidente, él quiere entender las razones de esa derrota, que es también una derrota personal, como hombre, como marido, como padre y como líder político. Su atención se centra en los procesos de modernización, tanto en Italia, en forma de modernización reaccionaria, de revolución pasiva, representada por el régimen fascista en el poder, como especialmente en los Estados Unidos. “La revolución como acto deberá ser sustituida por la revolución como proceso destinado a desestabilizar el poder burgués, mediante la conquista de la hegemonía” El Cuaderno especial, titulado por Gramsci como “Americanismo y fordismo”, que data de la primera mitad de los años 30, pero también muchos pasajes de los demás Cuadernos, nos presentan una concepción del Estado definida especialmente por la forma en que en Occidente se reaccionó a la crisis económica de 1929, es decir, ampliando las funciones públicas y dando al Estado un papel no solo como un organismo que ejerce legalmente la coerción, sino como un conjunto de aparatos hegemónicos, gracias a los cuales las clases dominantes son conjuntamente, y antes que eso, clases dirigentes. ¿Cuál sería la responsabilidad de la clase trabajadora e intelectuales norteamericanos, considerando a los Estados Unidos como el hegemón? En los Estados Unidos, la clase proletaria es víctima pero igualmente cómplice, después de todo, de las condiciones de explotación. Por lo tanto, si los grupos subordinados (concepto que Gramsci comenzó a utilizar conjuntamente y en sustitución de clase obrera o proletaria; con esto innovando el léxico marxista) quieren llegar a ser dominantes, o sea, derribar las relaciones sociales, deben primero llegar a ser dirigentes, construir una contrahegemonía a la hegemonía burguesa. ¿Y el papel de los intelectuales? El papel de los intelectuales es fundamental, para que ayuden a los proletarios –o subordinados– a construir esos procesos hegemónicos, dada la imposibilidad, en esta fase histórica, de hacer la revolución según el modelo bolchevique, al menos en Occidente, es decir, en sociedades con un capitalismo maduro. En otras palabras, la revolución como acto deberá ser sustituida por la revolución como proceso destinado a desestabilizar el poder burgués, mediante la conquista de la hegemonía, también en el Estado, y en sus aparatos –empezando, por ejemplo, por la escuela– para que esto permita el derrocamiento de las relaciones entre las clases.  ¿Dónde situaría en la actualidad el pesimismo ante la realidad que asistimos? Gramsci teoriza un “pesimismo de la inteligencia”, pero de la misma manera el “optimismo de la voluntad”. Hoy en día necesitamos desesperadamente de ambos. Y en el fondo, incluso en esta terrible situación en la que nos encontramos, una situación completamente inédita al menos en nuestro mundo y época, hay razones tanto para temer que las cosas no mejoren, sino que empeoren, incluso de forma irreversible, hasta una catástrofe final, pero asimismo hay razones para el optimismo. ¿Cuál es el horizonte que nos permite hoy ser optimista y no cesar en el afán de un mundo mejor? La izquierda radical, la pequeña izquierda que queda en Italia, repite el slogan: “No queremos volver a la normalidad, porque la normalidad era el problema”. Pues bien, creo que esta situación que estamos viviendo, con el sufrimiento que conlleva, con los muertos, con la tragedia de la sanidad pública, con la pobreza que está produciendo, puede ser una gran y extraordinaria oportunidad para el cambio social, económico y cultural. Lo que dificulta esta hipótesis es la falta de un Gramsci y de una fuerza política adecuada, capaz de organizar un gran movimiento de masas para el cambio. ______________________________________

Intervista di Cris Gonzalez, apparsa sul giornale venezuelano “Correo de Alba”, il 27 aprile 2020.

La difficolta’ e la necessita’ della speranza

“… è sperare che è difficile. Quel che è facile è istintivo è disperare, ed è la grande tentazione”. Così ammoniva lo scrittore cattolico Charles Péguy (morì a 41 anni nel settembre del 1914, proprio all’inizio della prima battaglia della Grande guerra, dove era andato volontario).
Parole che dovremmo sforzarci di ricordare e fare nostre in questi frangenti drammatici della nostra storia. E vincere la “grande tentazione”: il disperarsi, l’abbandonarsi alla disperazione, che in fondo, a ben vedere, ci appaga, in certo senso, ci cava dagli impacci, ci fornisce alibi, ci facilita nella rinuncia alla lotta, quella rinuncia che forse in cuor nostro, segretamente avevamo già scelto.
La disperazione in tal senso è individualistica, sempre; la speranza può essere invece collettivistica, comunitaria, sociale. E può, e deve – per come io la penso, a differenza di Péguy che associava la speranza alla fede – implicare l’azione, la lotta, all’opposto della disperazione che invece implica la rinuncia e l’inazione.
E una delle cose da fare oggi è non perdere la lucidità, non farsi obnubilare dall’emozione, combattere per rimanere svegli anche nel buio di questa lunga notte, e nel prendere buona nota dei fatti e delle parole e dei nomi. Domani, quando tutto questo sarà alle nostre spalle dovremo riprendere la lotta e presentare il conto a tutti coloro – singoli e gruppi – che si sono assunti responsabilità gravissime, dovremo far pagare loro le incompetenze e le prevaricazioni, la disonestà e l’inganno dei popoli, il privilegiare l’interesse di pochi rispetto all’interesse generale, la stolida apologetica del “privato” a scapito del pubblico.
Anche per questo conviene resistere e lottare, anche per questo dobbiamo coltivare la speranza di farcela: per presentare domani il conto a lor signori. Resistiamo e speriamo, dunque, oggi; non cediamo alla tentazione facile del disperarsi.
All’immagine (un’opera di Muzi del 1973, proprietà della Fondazione Longo) oltre all’ovvio significato politico di liberazione degli oppressi, sotto le bandiere del socialismo, oggi possiamo anche attribuire il senso della liberazione dal morbo che ci sta mettendo a così dura prova. Una doppia speranza che coltivo e voglio condividere con i miei amici e “seguaci”.

(Nato come post sul mio profilo Facebook, il 15 marzo 2020, è stato poi pubblicato su “AlgaNews”, il 16 marzo)

OMICIDIO SOLEIMANI: USA E IL TERRORISMO DI STATO

Non ci si può più stupire davanti al terrorismo di Stato, rappresentato sul piano globale dagli Stati Uniti, quale che sia l’Amministrazione che ne guida la politica. Siamo altresì stanchi di manifestare una impotente indignazione, davanti ad atti come quello compiuto ieri dagli yankees a Baghdad. E diciamolo che non ne possiamo più del silenzio della “comunità internazionale” quando invece dovrebbe far sentire la sua voce, nel senso della verità e della giustizia.  Siamo provati, anzi stremati davanti all’impunità che gli Usa e il loro fedele servo-padrone Israele, hanno garantita, potendo permettersi ogni violazione del diritto internazionale, tra cui gli infamissimi “omicidi mirati”: una di queste operazioni, compiuta fuori del  territorio nazionale, ha eliminato una figura di militare e di politico di grandissimo rilievo, un vero eroe nazionale in Iran, come il generale Qassed Soleimani.

Un gesto che nessuna giustificazione può avere, e che si rivelerà ben presto controproducente per chi lo ha compiuto, togliendo dalla scena non solo colui che è stato probabilmente il principale artefice della sconfitta di Daesh in Siria, ma anche a ben vedere un possibile interlocutore politico proprio degli Stati Uniti.  Un gesto che inoltre danneggia pesantemente l’Europa per le conseguenze che potrà avere, a partire dall’innalzamento del costo del petrolio. Una Europa che al solito non solo non ha una voce unitaria, ma balbetta o tace; brilla per inconsistenza il Governo italiano, con Di Maio agli Esteri, e con il “presidente-suo-malgrado” Giuseppe Conte che aspetta l’imbeccata per parlare. Ha parlato, anzi blaterato, l’ex vicepresidente Matteo Salvini con un post grottesco, in cui lo zelo del servitore si profonde a piene mani; è la dinamica servo-padrone, che si manifesta, ed è in fondo simile a quella che in atto da sempre, tra il presidente statunintese  e il capo del governo israeliano, chicchessia a rivestire i due ruoli. E questo chiacchiericcio trova riscontro in pseudo-analisi di pseudo-giornalisti della solita compagnia di giro pronta soltanto a cantare le lodi di Washington e a giustificare Tel Aviv.

Ma come è possibile che personaggi come quelli che pullulano in tutte le redazioni giornalistiche (della carta o radiotelevisiva, o del web) siano professionalmente degli “opinion maker”? ossia coloro che costruiscono e indirizzano l’opinione pubblica, obnubilandola, deformando la verità dei fatti, imbottendo i crani delle persone di verità prefabbricate, “ad usum”… E inevitabilmente ci si chiede: ma “ci sono o ci fanno”? Ovvero, detto in modo più forbito: la loro è mera incompetenza politologica, ignoranza della storia e della geografia, magari accompagnate dal pregiudizio ideologico (compresa una punta di razzismo, verso i “barbari” islamici)? O si tratta semplicemente di servidorame? Di “pennaruli”, come si dice a Napoli, che vendono la loro penna a un padrone, scrivendo ciò che viene loro ordinato; spesso andando anche oltre? Avendo l’animo servile, possono spingersi assai più in là di quanto i loro padroni si attendono, diventando, ridicolmente, pateticamente, più realisti del re. Leggere quanto scrivono in questa come in altre occasioni non tutte ma la maggior parte delle “grandi firme” del “Corriere della Sera”, della “Stampa”, de “la Repubblica”, dei vari TG e programmi radiofonici, costituisce il maggior incentivo a spegnere apparecchi radio e televisori, a non comprare più un quotidiano (con l’eccezione del “Manifesto” e per la politica estera, francamente, almeno in pare “Avvenire”, e “Il Sole 24 Ore”). Si salvano, insomma, in pochissimi, come Alberto Negri, o Nicola Pedde (Direttore dell’Institute of Global Studies) o Fulvio Scaglione, su “Famiglia Cristiana”, che tanto fa arrabbiare Salvini, dunque è sulla buona strada.

Rimane il problema del divario tra un gigantesco apparato di propaganda che ci sovrasta, e sempre più ridotte aree di libero pensiero, isole di informazione non precostituita dai manutengoli di “lor signori”, sommerse da un mare di menzogna. E ci si sente davvero impotenti, sempre più isolati, frammentati, vinti.

Eppure dobbiamo resistere. Non mollare, come scrivevo solo pochi giorni or sono: non abbandonare un lavoro tenace e perseverante di “controinformazione”, che in realtà è vera informazione. Quanto meno insinuare il dubbio nelle granitiche certezze propalate via video, via microfono, via carta stampata, via web: usiamo anche noi, ossia coloro che “non la bevono”, il web, il microfono, il video, la stampa, se ci consentono di farlo, per gridare sui tetti la verità. Oggi la verità da gridare è questa: l’uccisione del generale Solemaini è stato non sol un crimine gravissimo, sul piano internazionale, ma altresì un atto sconsiderato che rischia di innescare un conflitto di proporzioni gigantesche. Una delle principali conseguenze, lo sappiano Salvini e la sua fedelissima Maria Giovanna Maglie, sarà una gigantesca ondata di profughi. Chiuderemo i porti, blinderemo le frontiere, dispiegheremo l’esercito nelle città, faremo nuovi “decreti sicurezza”…? E poi? Dichiareremo guerra all’Iran, accanto agli yankees?

[Pubblicato su “Alganews”, il 5 gennaio 2020]

Il generale Qassed Soleimani, ucciso dagli israeliani.

La ‘ndrangheta tra storia e attualita’

La ‘ndrangheta, nelle ultime settimane, è ritornata protagonista nell’azione di contrasto svolto dalle istituzioni giudiziarie e delle forze di polizia. Non altrettanto sui media, i quali, è opinione corrente, hanno mostrato una incredibile, o sospetta disattenzione. Ne ho già parlato i questa sede recentemente, anche in relazione a clamorosi sviluppi di indagini giudiziarie, di cui, dalla parte della legalità, è stato protagonista il responsabile della Procura di Catanzaro, Nicola Gratteri. In data 19 dicembre, per esempio, quella procura ha coordinato una delle più vaste operazioni di sempre volta alla repressione della criminalità in Calabria: quasi mezzo migliaio di arrestati, centinaia di indagati, milioni di euro di beni sequestrati, nel territorio, ma anche in altre regioni, quasi l’intera Italia, con estensioni fuori, in vari Paesi europei. E il giorno 20 era rovinosamente precipitata la stella di un politico di lungo corso nella Regione Piemonte, come Roberto Rosso, ora in quota Fratelli d’Italia.

Pochi giorni prima la Giunta regionale della Vale d’Aosta era stata decapitata da un’altra inchiesta, per le pesantissime infiltrazioni proprio della mafia calabrese, che faceva il bello e il cattivo tempo lassù tra i severi valdostani. In precedenza, era toccato all’Umbria, con esiti fatali per l’amministrazione che la reggeva. Era stata messa a nudo la presenza del sistema ‘ndranghetista in regione: presenza fortissima, condizionante l’intera vita politica e in parte l’apparato produttivo, e più in generale il tessuto economico.

Insomma, una nuova, pesante prova se ve ne fosse ancora bisogno della pervasività del Grande crimine, e del fatto che ormai le cosche hanno rotto le barriere locali, e si sono organizzate su scala planetaria. Per la mafia siciliana, in particolare, il procuratore di Palermo Roberto Scarpinato da anni segue piste internazionali, e ora il suo omologo di Catanzaro, Gratteri, sta nei fatti dimostrando che la criminalità calabrese non è rimasta indietro. Anzi, come altri studi da tempo vanno sostenendo, precisamente la ‘ndrangheta calabrese è in testa alla classifica dei soggetti della Grande criminalità organizzata, sopravanzando ormai mafia e camorra e altre minori.

Quella della ‘ndrangheta, e del suo primato, al di là della “strana” disattenzione sugli ultimi avvenimenti giudiziari, è dunque una realtà non sufficientemente raccontata né dai media, né dalla classe politica, che sia o meno collusa o addirittura beneficiaria dell’appoggio degli ‘ndranghetisti, come hanno dimostrato i casi valdostani, piemontesi e umbri. E neppure se ne ha coscienza pubblica; tanto nel discorso politico, quanto nell’immaginario collettivo, è la mafia siciliana a occupare tutto o quasi lo spazio reale o virtuale del grande crimine organizzato. E capita addirittura, in un periodo in cui l’assalto all’Ordine giudiziario è diventato diffuso come ai tempi del berlusconismo imperante, che una deputata piddina – il cui consorte, tale Nicola Adamo, finito sotto inchiesta giudiziaria – attacchi il procuratore Gratteri accusandolo di farsi pubblicità! E intanto lo stesso Adamo annuncia addirittura un esposto al CSM contro Gratteri, segno evidente che il procuratore di Catanzaro sta lavorando magnificamente.

Ma da dove nasce il primato ‘ndranghetista? Come sempre la risposta la può dare, innanzi tutto, la storia. E quella della organizzazione calabrese è assai poca nota. Perciò giunge opportuno il libro a triplice firma Quando la ‘ndrangheta scoprì l’America (di Antonio Nicaso, Maria Barillà e Vittorio Amaddeo, con Prefazione di Nicola Gratteri, Mondadori). Si tratta di un lavoro originale e pressoché esaustivo su di un argomento finora per nulla studiato, ossia l’infiltrazione ‘ndranghetista negli Stati Uniti d’America. Mentre sono abbastanza consistenti, per numero e per qualità gli studi sulla mafia americana, ossia sull’esportazione negli States dei mafiosi siciliani, e della ricaduta che questo ha avuto  sullo sviluppo dell’organizzazione, anche in Italia, stranamente, lo stesso lavoro non era stato compiuto per la criminalità calabrese, probabilmente effetto della cronica sottovalutazione tanto sul piano dell’azione di contrasto  (di forze di polizia, di organi politici, e di organi giudiziari), quanto su quello dell’analisi socio-storica e politico-economica del fenomeno.

L’esportazione della criminalità nel continente americano, soprattutto del Nord , ma non solo, ha inizio nella prima grande ondata migratoria di italiani, ingaggiati dalle agenzie che inviano i loro agenti per la Penisola a reclutare braccia per lo sviluppo capitalistico di quelle terre. Con l’esportazione di uomini e donne desiderosi e bisognosi solo di lavorare, per guadagnarsi onestamente il pane, come si legge nella stampa d’epoca, partì l’emigrazione di delinquenti. In particolare di “picciotti”, anticamera dello ‘ndranghetista (come del mafioso), che hanno intuito le possibilità nuove offerte dal “Nuovo Mondo”: possibilità che potrebbero moltiplicare per un fattore N, il giro di affari della onorata società calabrese. E così sarà.

In realtà, tra ultimo Ottocento e Grande guerra, ma con una prosecuzione nei decenni seguenti, il panorama mostra una sorta di traffico bilaterale, con andirivieni di criminali tra Italia e America, ma anche di poliziotti che compiono il medesimo tragitto, in andata e ritorno, seguendo le tracce dei delinquenti. Si tratta di una storia complicata, anche per il mutare dei ruoli (la guardia diventa facilmente ladro, il ladro diventa eroe popolare, l’eroe si trasforma in belva sanguinaria, e così via), ma anche per i cambiamenti di nomi ora volontari, per sfuggire alle ricerche tanto di ‘ndranghetisti in cerca di vendette su picciotti che hanno tradito, quanto di sbirri che danno loro la caccia. Di questi, il più celebre è il cilentano Joe Petrosino, che riuscirà a guadagnarsi l’apprezzamento delle autorità statunitensi e il feroce odio dei delinquenti, la cui risposta non si farà attendere, e nel marzo 1909, con un agguato nel centro di Palermo, che lo ucciderà, consegnandone il nome all’immortalità.

Emblematico, sull’altro fronte, il caso di Giuseppe Musolino, uno dei primi “grandi” ‘ndranghetisti, finito in prigione, processato, condannato, il quale riesce fortunosamente a evadere e dà inizio a una spaventosa sequela di vendette verso tutti coloro che a suo avviso lo hanno “infamato” o hanno contribuito a mandarlo dietro le sbarre. Siamo nel passaggio del secolo, tra Otto e Novecento, che vuol dire anche il passaggio dall’era umbertina a quella giolittiana, con lo scontro interno alla classe dirigente, se allargare la base dello Stato o arroccarsi in difesa dei privilegi. Musolino diventa presto un mito popolare, e per assonanza con le leggende immediatamente postunitarie, viene appellato “Il brigante Musolino”: si tratta in vero di un mito per nulla corrispondente alla realtà dei fatti. Nel mito egli è il vendicatore dei torti subìti dalla povera gente, un uomo che lottando per la propria libertà e dignità, lotta per tutti. E mentre gli uomini lo ammirano e cercano di imitarne le gesta, e le donne gli si offrono, persino il ceto politico cerca di sfruttare quel mito, a costo, come accadrà, di favorire sia pur inconsapevolmente e indirettamente, lo sviluppo delle cosche ‘ndranghetiste.

Queste si sviluppano, sempre sul tragitto atlantico, fra America e Italia, sulla base di agguati, omicidi, rapimenti, torture, vendette trasversali, minacce, intimidazioni, riti iniziatici, macabri rituali, simbologie mai del tutto chiarite, e un’aura di mistero che cela le regole ferree di una società segreta, dove non è facile essere accolti, ma impossibile uscire. Una società che perfeziona via via i propri metodi, affina le proprie procedure, funzionando come uno Stato, con tanto di tribunali, di esecutori di “sentenze”, di mediatori, di spie, eccetera. Sovente giudici e poliziotti si arrendono, davanti a una tela in cui è difficilissimo fare degli strappi, e la ‘ndrangheta cresce, si allarga, prospera, sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico: certo, nascono e si rafforzano nuclei speciali di investigatori, che sfidando la sorte, ostinatamente, cercano di sconfiggere un drago sempre più potente, che si esplica nella imposizione del “pizzo”, induzione alla prostituzione femminile, riduzione in schiavitù, organizzazione su scala sempre più ampia dei più vari traffici illeciti. Ma lo stesso progredire degli affari stimola appetiti, suscita rivalità, eccita contrasti interni, da cui le guerre tra le varie gang (le ‘ndrine) che si costituiscono all’interno della organizzazione-madre. 

La stagione del proibizionismo sarà naturalmente la gallina dalle uova d’oro per la ‘ndrangheta come per le altre mafie. Il contrabbando di alcolici in vero si aggiunge lo spaccio di sostanze stupefacenti, moltiplicando gli introiti esponenzialmente, ma nel contempo anche le lotte interne, e quelle tra le varie organizzazioni criminali. Sono i “ruggenti anni Venti”, raccontati in tanta letteratura scritta o raccontata per immagini al cinema. Le faide interne alla ‘ndrangheta si moltiplicano, in parallelo al sorgere e al rapido incrudirsi delle guerre tra mafie. Gli omicidi, i sequestri di persona, le irruzioni nei locali, le torture più efferate…: le azioni più trucide sono posto in atto da una parte e dall’altra, un vero film dell’orrore, che spesso va oltre l’immaginabile. Il libro le documenta analiticamente, non risparmiando i dettagli più macabri: anzi, se v’è una critica da muovere agli autori è proprio l’eccesso di particolari, di nomi, di situazioni, di citazioni, spesso lunghissime, che diventano altrettanti arbusti e cespugli di un bosco nel quale è facile smarrirsi… Le istituzioni – giudici, politici, poliziotti – appaiono spesso in grave difficoltà, quando non si lasciano corrompere dai criminali stessi. Un aiuto fondamentale giungerà dai “pentiti” primo fra tutto il fratello del “Brigante Musolino”, il quale nel 1930 vuoterà il sacco, e con la qualifica di “infame” sarà freddato in un agguato ‘ndranghetista nel 1961: la vendetta è un piatto che si serve freddo, evidentemente.  Il brigante morrà invece ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Reggio Calabria nel 1956. Ma, come si legge nel libro “il suo mito, però, ormai entrato nel patrimonio genetico della ‘ndrangheta, gli sopravvive”.

A noi, invece, rimane la realtà terribile di questo polipo che con i suoi tentacoli avviluppa un intero Paese.

[Articolo pubblicato in “MicroMega” on line, il 31/12/2019, col titolo “Il ritorno della ‘ndrangheta raccontato in un libro”]

SCene della catastrofe italiana


Scene della catastrofe italiana. Oggi è caduto un pezzo di viadotto autostrada Savona-Torino,seguito da una frana sulla statale che collega le due città;in serata una voragine si apre nell’Asti-Torino; le mareggiate in Liguria si sono mangiate buona parte delle spiagge; l’acqua alta a Venezia non è ancora del tutto defluita; a Torino il Po sta salendo rapidamente, tenendo sul chi vive la cittá; in molte città la Protezione civile ha emanato l’allerta rossa.

Strade chiuse, scuole chiuse, talvolta anche i pubblici esercizi.
Le ferrovie a mal partito, con decine di treni cancellati o con ritardi superiori alle due ore. La vita istituzionale ed economica e civile di ampie zone della Penisola semi paralizzata.

Ma la classe politica, pronta a impegnarsi (malissimo) sulle “emergenze” fatica a trovare il bandolo della matassa, e magari forte del dibattito sul “climate change”, preferisce ripetere il mantra degli “eventi estremi”. E, intanto, persevera nelle scelte scellerate: il TAV, il MOSE, il TAP, il MUOS e via seguitando, in una congerie di “grandi opere” non soltanto inutili e dispendiose, ma come spiegano i veri esperti in relazione a Venezia, circa il gigante MOSE, si tratta di opere dannose.

E si tratta, inoltre, di opere che producono profitti (spesso illeciti, sulla base di tangenti) per pochi, e nessun beneficio reale per la collettività. La quale invece avrebbe bisogno non di poche mastodontiche creazioni, ma di una miriade di piccole opere: pulire i greti di fiumi e torrenti, ma anche il sottobosco, rimboscare montagne e colline (piantando alberi), fermare l’abusivismo (anche procedendo con demolizioni forzate), investire nella rete ferroviaria locale e non (solo) nell’Alta Velocità, riparare migliaia di chilometri di strade, specialmente quelle provinciali, studiare seriamente l’assetto idrogeologico del Paese, monitorare in modo rigoroso ponti e viadotti, e via seguitando.

Questo è un problema che ci troviamo dinnanzi da decenni, ma ora il cambio climatico ha reso attuale l’impensabile, ha trasformato l’eccezione in regola, e ha fatto diventare “normali” quelli che prima erano gli “eventi estremi”. La natura, violentata, oltraggiata, sfruttata in modo dissennato dagli umani si sta rivoltando contro di loro: contro i palazzinari, contro i politici corrotti, contro le organizzazioni criminali che gestiscono il traffico e lo stoccaggio di rifiuti tossici altamente inquinanti, contro una larga parte del popolo italiano che con l’abusivismo è andato a nozze.

La casetta poi condonata, la sopraelevazione poi condonata, la casupola di canne sulla spiaggia divenuta nascostamente, anno dopo anno, un edificio gigantesco, poi condonato…; e così via.

Ci si sta abituando a convivere con la catastrofe, senza rendercene conto, e senza comprendere che questa “normalità” sarà di anno in anno più intensa, più gravida di danni, più foriera di distruzioni e morte.

Se non si cambia radicalmente strada il conto lo pagheremo tutti. Senza dimenticare che abbiamo a che fare con un ceto politico fatto di incompetenti, impreparati e quasi sempre delinquenti. E che loro sono i primi responsabili di scelte assurde, di indirizzi sbagliati, di errori ed orrori.

Rivoluzione cercasi…

[Post su Facebook, del 5/12/2019 ripreso dalla testata on line “Tg VALLESUSA”, il 6/12/219; foto dei VV.FF]

un Nobel che sfida i luoghi comuni

Voglio esprimere la mia personale soddisfazione per il Nobel Letteratura 2019 a Peter Handke. Non solo uno scrittore raffinato, capace di scandagliare l’animo umano (cito per tutti “Infelicità senza desideri”, un romanzo breve dedicato a sua madre, morta suicida, nel 1971, uno struggente, piccolo capolavoro); non soltanto un autore versatile, completo: romanzo, racconto, poesia, dramma teatrale, scrittura e sceneggiatura cinematografica (come non pensare al meraviglioso “Cielo sopra Berlino” di cui fu coautore con il regista Wim Wenders, nel 1987? O in precedenza, “La donna mancina” romanzo e poi film dello stesso Handke); non solo uno sperimentatore d’avanguardia e “provocatore” culturale (si ricordi il suo spettacolo “Offendendo il pubblico”, del 1966, che ebbe enorme successo); ma soprattutto, Handke ha saputo incarnare, senza esibizionismi, con discrezione, la figura dell’intellettuale. Un intellettuale impegnato, anche se disorganico, un intellettuale che non fa tacere la propria voce, per timore delle ricadute negative in termini di popolarità o sul piano volgarmente commerciale. Un intellettuale capace di sfidare i luoghi comuni, il punto di vista dominante, le idee ricevute.
Voglio ricordare soltanto la sua indomita battaglia in difesa del popolo serbo e del presidente Milosevič, negli anni Novanta del secolo scorso, in particolare nella vicenda drammatica che condusse all’attacco della coalizione Nato (di cui era parte integrante l’Italia di D’Alema, che voleva dare prova della propria “affidabilità” internazionale al padrone statunitense).
La voce di Handke si levò a più riprese, accanto a pochi altri come Eric Hobsbawm, Robin Blackburn (direttore della “New Left Review”), Noam Chomsky, Pierre Bourdieu o tra gli italiani Rossana Rossanda, Mario Luzi, Carlo Bo, Claudio Magris, Luigi Pintor e pochi altri: era la “crème de la crème” della intelligenza mondiale, si può dire, e naturalmente questi intellettuali vennero sbeffeggiati, insultati, addirittura boicottati. Delle commedie di Handke vennero impedite le rappresentazioni, e un’ombra nera fu calata su di lui, accusato di essere un nuovo Céline. Come dire uno scrittore fascistoide, a cui la letteratura, quandanche ben strumentata tecnicamente, non poteva costituire una scusante. Un vero e proprio delirio ideologico fu indirizzato contro Handke, che incurante, proseguì la sua campagna di libere parole e liberi pensieri in difesa della verità e della giustizia.
Una campagna che aveva iniziato ben prima di quella oscena guerra dei 19 Stati – la più potente coalizione della storia – contro la minuscola Repubblica Federale Jugoslava, o quel che ne rimaneva, la Serbia sostanzialmente, e il suo presidente che infatti venne poi venduto e fatto morire, in modo assai sospetto, in un carcere di Amsterdam, al di fuori di qualsiasi garanzia giuridica. Il libro “”Un viaggio d’inverno ovvero giustizia per la Serbia” (1996, uscito in inglese, in prima edizione) fu un grido d’allarme, una richiesta appunto di giustizia per un popolo che Handke, sfidando i sionisti, osò paragonare agli ebrei, per le persecuzioni cui veniva sottoposto, mentre per giustificare l’aggressione di qualche anno dopo, i corifei delle guerre “umanitarie”, e in particolare di quella, che qualcuno osò definire “etica”, furono i kosovari a dover recitare la parte degli ebrei mentre i serbi erano i nazisti. Si trattava di un testo lirico, appassionato, coinvolgente, ma insieme un documentato atto d’accusa che cadde nel vuoto. E poco dopo, non contenti di aver distrutto “l’anomalia jugoslava” ossia quella di un Paese che orgogliosamente si proclamava socialista nel cuore dell’Europa capitalistica e normalizzata nella UE sotto comando NATO, i giustizieri del neoliberismo si avventarono su Belgrado, con una campagna tra le più violente e distruttrici del periodo post-1945, ossia quello della “pace” in Europa.
Personalmente sono grato a questo scrittore coraggioso, sul piano formale, letterario, a questo curioso sperimentatore culturale e, last but not least, a questo intellettuale capace non soltanto di cercare la verità e sussurrarla alla sua ristretta cerchia di amici, ma di gridarla sui tetti del mondo.
Perciò dico grazie all’Accademia Svedese che lo ha premiato.

(Nella foto la copertina della rivista tedesca “Literaturen”, di qualche anno fa, contenente un saggio di Handke).

L’articolo è comparso il 10 ottobre 2019 su “AlgaNews”, col titolo: “Il Nobel per la Letteratura 2019 a Peter Handke intellettuale capace di sfidare i luoghi comuni”