La “meglio gioventù”

Le proteste contro il massacro in atto a Gaza – che ormai innumerevoli giuristi e enti giuridici definiscono, con coscienza di causa, “genocidio” – non sono  cominciate ora:  tutti ricordano i fiumi umani che da Londra a Giakarta, da Madrid a New York, hanno agitato bandiere palestinesi, scandendo slogan efficaci. Ma quello che sta accadendo negli ultimi giorni, con le occupazioni di sedi universitarie, di campus, è qualcosa di nuovo, è un passo avanti verso una consapevolezza combattiva di una grande parte dell’umanità contro il governo di Tel Aviv. Come era accaduto negli anni Sessanta del secolo scorso, la protesta parte dagli Stati Uniti: allora, gli studenti si mobilitavano contro la guerra in Vietnam, e c’era in loro, come qualche commentatore malevolo insinuava, oggettivamente anche un interesse personale, almeno dei giovani maschi che rischiavano di partire per la giungla vietnamita, ossia di evitare di andare a morire per lo Zio Sam in Indocina. In realtà, allora sussisteva anche una seconda ragione, che era la solidarietà col movimento di liberazione degli afroamericani.

E oggi? Oggi, l’inattesa azione partita dalla Columbia di New York, è completamente “disinteressata”: è, come direbbe Gramsci, für ewig, manda un messaggio al futuro, non vuole raggiungere scopi immediati, ma lavora nella speranza che quel messaggio venga raccolto. Come infatti sta accadendo. E le occupazioni sono un virus benefico, davanti al quale la “cura” poliziesca, da un lato, le reprimende dei conservatori, e le calunnie dei reazionari non sortiscono alcun effetto se non quello di diffondere l’incendio.

È bizzarro che gli argomenti dei critici (se così vogliamo chiamarli, nobilitandoli) siano esattamente gli stessi che si udivano nel Sessantotto. Sono, in sostanza, quattro. 1) Le proteste impediscono agli altri studenti di condurre la loro attività serenamente, regolarmente: insomma, i “bravi” studenti, che si limitano al loro dovere, ossia studiare e sostenere esami. 2) I protestanti sono “figli di papà”, che cercano solo pretesti per scansare la fatica dello studio, e si dilettano in questo genere di giochi. 3)  La protesta è lecita, ma deve esser garbata, gentile, e non si deve alzare troppo la voce, non calpestare i prati, non rompere i vetri, non “fare casino”, insomma.  4) In realtà i contestatori costituiscono una infima minoranza, e sono solo utili idioti di forze esterne all’università, di agitatori professionali, in questo caso addirittura longa manus di Hamas, come hanno sostenuto, con faccia tosta,  rappresentanti del governo israeliano. Anche negli anni Sessanta, gli studenti che occupavano venivano liquidati come teppisti e fannulloni, e di essere “strumentalizzati” da agitatori professionali, infiltrati da agenti cinesi o sovietici, e quant’altro.

La storia si ripete, quasi monotonamente. Ebbene, io credo che non soltanto vada dato il più ampio riconoscimento alla generosità degli studenti degli atenei statunitensi che sfidando botte e arresti, e rischiando l’espulsione dai loro corsi di studio,  chiedono il “cease fire”: non sono affatto coinvolti direttamente, ma sono spinti da un dovere morale, e scendono in campo (è proprio il caso di dirlo), coraggiosamente, e la loro azione sta rigalvanizzando i loro sodali a Parigi come a Roma: la protesta non si ferma, e accende la speranza in  un mondo in cui l’indifferenza venga sconfitta dall’impegno.

Aggiungo che come hanno notato molti pedagogisti, proprio la protesta, e l’occupazione degli spazi universitari, è un momento fondamentale della maturazione dei giovani che studiano, tanto più che la richiesta di porre fine al massacro dei palestinesi, nelle parole dette e scritte da quegli studenti, va ben oltre, e si nutre di rifiuto del colonialismo, del razzismo e della white supremacy, del necessario, inevitabile e benefico predominio della “civiltà occidentale”.

Perciò, lode agli studenti d’America. E a quelli che ne seguono l’esempio. Sono loro, davvero, la pasoliniana “meglio gioventù”.

(9 maggio 2024)

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